23 Luglio 2021 - News medica, News Organi Tecnici
Cardiopatie e montagna
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Dr.ssa Elisa Bot
Premessa fisiopatologica
L’esposizione all’alta quota porta ad una serie di adattamenti fisiologici atti a mantenere un’adeguata ossigenazione.
Questi meccanismi che sono normalmente ben tollerati dal soggetto sano, potrebbero non esserlo nel paziente cardiopatico.
Si definisce acclimatazione il processo di adattamento del corpo alla minore disponibilità di ossigeno in quota. Si tratta di un processo lento, che si svolge in un periodo di giorni o settimane.
L’acclimatazione ha tre fasi temporali:
FASE ACUTA: consiste nelle prime 72 ore di soggiorno in quota, è la fase dove può verificarsi il mal di montagna.
FASE SUB ACUTA: va dalla 73°ora fino a quando persiste l’aumento dei Globuli Rossi (GR).
FASE CRONICA: quando il livello di GR si stabilizza perché il soggetto ne ha raggiunto il valore ottimale.
L’aumento degli eritrociti (GR) è tanto più marcato quanto è più bassa la pressione di ossigeno: questo fenomeno rappresenta una delle risposte dell’organismo per compensare gli effetti dell’ipossia.
La classificazione delle quote secondo Bartsch è la seguente:
livello del mare | 0 -500 metri s.l.m. |
Bassa quota | 500 -2000 metri s.l.m. |
Media quota | 2000 – 3000 metri s.l.m. |
Alta quota | 3000 — 5500 metri s.l.m. |
Quota estrema | >5500 metri s.l.m. |
Sebbene le problematiche correlate all’alta quota siano sempre possibili con ascensioni troppo rapide, sono decisamente più frequenti tra i 3500 e i 5500 m.
Sopra ai 5500 m si parla di quota estrema: a queste altitudini l’organismo umano va incontro ad un rapido deterioramento. Sopra questa quota non è possibile raggiungere l’acclimatazione e infatti non vi sono insediamenti umani fissi.
L’alta quota causa una diminuzione della tolleranza all’esercizio fisico e allo stress in generale.
Consigli per tutti
Evitare ascese dirette con mezzi meccaniciper soggiornare sopra i 3000 m.
Una buona acclimatazione si ottiene solo con ascese graduali, non si dovrebbero superare i 450 m di dislivello al giorno.
Mal di montagna
Il mal di montagna è la patologia più comune legata all’altitudine.
Colpisce soprattutto soggetti che si recano sopra i 2500 m senza acclimatarsi. I sintomi tipicamente iniziano dopo 2 ore dall’arrivo in quota, comunemente il primo disturbo è la cefalea seguita da sensazione di grande stanchezza, vertigini, perdita di appetito, sonno disturbato.
Un fattore che può aiutare la diagnosi differenziale con altre patologie è la presenza di respiro periodico.
Gli atti respiratori del respiro periodico non sono tutti uguali, la loro ampiezza cresce progressivamente a partire dalla fine della fase di apnea precedente fino a un massimo, per poi ridursi fino all’apnea successiva.
Al soggetto va comunque sconsigliato di proseguire la salita fino a quando i sintomi non sono scomparsi del tutto. Inoltre, se rimanendo in quota, non si ha il miglioramento dei sintomi, il soggetto va trasportato a una quota minore.
La somministrazione di ossigeno, se disponibile, può essere utile soprattutto durante il sonno.
Si sottolinea che se si instaura l’edema cerebrale da alta quota il soggetto cerca di isolarsi, o sembra confuso, non riesce a portare a termine compiti semplici come alimentarsi o vestirsi, può avere nausea e avere difficoltà a camminare su una linea retta.
Ipertensione arteriosa
L’esposizione acuta in alta quota produce un aumento sia della pressione diastolica che della pressione sistolica, anche se comunque è presente una grande variabilità interindividuale.
L’ipossia tipica dell’alta quota induce una vasodilatazione periferica, ma allo stesso tempo causa l’attivazione del sistema nervoso simpatico: quest’ultimo causa un aumento della gittata cardiaca e una vasocostrizione periferica. In poche ore questo effetto supera l’effetto della vasodilatazione periferica indotta da ipossia e produce un aumento della pressione arteriosa.
D’altro canto l’ambiente con bassa umidità e l’iperventilazione indotta da ipossia possono portare a progressiva disidratazione del soggetto che si reca ad alta quota e questo può contribuire ad un abbassamento della pressione arteriosa. I pazienti che potrebbero risentire di più di quest’ultima possibilità sono i pazienti ipertesi in terapia con un farmaco diuretico.
L’entità della risposta pressoria all’alta quota è spesso imprevedibile e spesso variabile. Il paziente dovrebbe essere istruito -dal proprio medico e in modo personalizzato- ad automonitorarsi la pressione arteriosa e ad adattare la terapia antipertensiva, specialmente per quanto riguarda i primi giorni di soggiorno in quota.
Al paziente con condizioni cliniche instabili, o con valori pressori poco stabili >160/100 mmHg a riposo, o >220 mmHg di sistolica durante l’esercizio fisico dovrebbe essere sconsigliato in modo assoluto di recarsi in alta quota.
Coronaropatie
Nel paziente coronaropatico la capacità di aumentare la capacità del circolo coronarico è limitata già a livello del mare.
Non è consigliabile che si rechi in altitudine il paziente con patologia coronarica instabile, o il paziente con sintomi ischemici durante esercizio moderato.
Il soggiorno in alta quota è comunque sconsigliato per almeno tre-sei mesi dopo sindrome coronarica acuta, infarto del miocardio o procedure di riperfusione percutanea.
Nei pazienti che non hanno avuto eventi negli ultimi sei mesi ma sono considerati dal medico ad alto rischio andrebbe preso in considerazione lo svolgimento di un test da sforzo. In caso questo risulti negativo, sia dal punto di vista clinico che elettrocardiografico, il soggiorno in alta quota può essere considerato relativamente sicuro.
L’angina instabile costituisce invece una controindicazione assoluta all’esposizione in alta quota.
Soggiorni a media quota ( 1000-2000 m) sembrano invece ridurre il rischio di mortalità nei pazienti coronaropatici e con pregresso ictus. Questo effetto benefico non è limitato a coloro che sono nati in alta quota ma ad ogni individuo che vi si rechi per un periodo prolungato. Il meccanismo per cui avviene questa riduzione del rischio non è ancora chiaro.
Non bisogna dimenticare che il paziente in terapia antiaggregante ha un rischio maggiore di sanguinamento spontaneo e/o traumatico. Ai pazienti con doppia antiaggregazione o in terapia anticoagulante dovrebbe venire sconsigliato il soggiorno in alta quota per periodi prolungati soprattutto se in luoghi isolati o difficilmente raggiungibili dai mezzi di soccorso.
Scompenso cardiaco
il paziente con grave limitazione funzionale, con segni clinici o biochimici di ritenzione di liquidi, o il paziente clinicamente instabile non dovrebbe recarsi in alta quota.
Nel paziente con scompenso cardiaco clinicamente stabile che intenda soggiornare in alta quota per un periodo prolungato, andrebbe valutata la possibilità di eseguire un ecocardiogramma ed eventualmente un test da sforzo.
L’esposizione alla quota può essere considerata relativamente sicura rispettando una corretta acclimatazione soprattutto durante i primi giorni.
Le restrizioni che il paziente ha alla quota di partenza devono ovviamente essere mantenute anche in quota: basso consumo di sale, monitoraggio del peso corporeo se possibile, monitoraggio dei segni di ritenzione di fluidi.
È opportuno evitare che il paziente si disidrati.
La comparsa di sintomi che facciano presagire un accumulo di liquidi a livello polmonare (tosse, fiato corto, battito accelerato etc) vanno considerati come emergenza medica e il paziente andrebbe immediatamente trasportato a bassa quota.
Patologie cerebro vascolari
In caso di evento cerebrovascolare (stroke o TIA) intercorso nei 3 mesi precedenti il paziente dovrebbe evitare escursioni oltre i 2000 m di quota, andrebbero evitati anche i trasporti aerei.
In caso di evento cerebrovascolare intercorso da più di 3 mesi, paziente stabile e senza evidenti fattori di rischio di recidiva, l’escursione in alta quota potrebbe essere intrapresa con relativa sicurezza, andrebbero evitate comunque le quote estreme.
In caso di stenosi di vasi cerebrali maggiori (come le carotidi) il paziente dovrebbe evitare escursioni sopra i 2000 m.
Conclusioni
Le escursioni o i soggiorni in montagna sino a 1500 – 2000 m s.m.l. sono permessi a tutte le persone con patologie cardio circolatorie. Sopra alla suddetta altezza dovrebbe essere fatta una valutazione specialistica per definire i tempi di acclimatazione, il tipo di attività più consono, le indicazioni dietetiche e gli eventuali aggiustamenti della terapia.